“Vedo cose meravigliose” di Christina Riggs

Un saggio elegante, ricco e molto originale che ripercorre la storia della scoperta della tomba intatta del faraone fanciullo e dei misteri, le questioni sociali ed etiche che lo circondano da 100 anni.

Oggi in qualche mercato antiquario potrebbero ancora aggirarsi piccoli oggetti, amuleti o frammenti originali provenienti dalla tomba egizia più famosa del mondo, quella del golden boy Tutankhamon.

Può sembrare incredibile eppure la vicenda della scoperta dell’unica tomba reale egizia ritrovata praticamente intatta e portata alla luce dal team di lavoro dell’egittologo inglese Howard Carter nel 1922, non è mai stata (e probabilmente mai sarà) del tutto priva di misteri e verità mai confessate.
Il saggio dell’ex egittologa Christina Riggs ripercorre non solo questa vicenda piena di stranezze e fascino ma porta alla luce alcuni temi fondamentali e non banali: il razzismo sistematico con il quale la vicenda della scoperta della tomba è passata alla storia, il modo in cui essa ha plasmato la politica e la società e, infine, la questione etica relativa al trattamento dei corpi dei defunti ai fini della ricerca.

i misteri di Castle Carter

Nel libro viene ripercorsa con dovizia di particolari e fonti verificabili l’intera vicenda della scoperta della tomba del faraone fanciullo: figlio di un padre eretico, Akhenaton e di una donna di cui non si conosce ancora con certezza l’identità; un sovrano dalla vita breve e, tutto sommato, piuttosto insignificante nella intera storia millenaria delle dinastie egizie. Eppure tutti, a 100 anni dalla scoperta di quel gradino in pietra che condusse alla tomba ipogea, riconoscono l’immagine della sua maschera funeraria d’oro e lapislazzuli, molti sapranno dirvi il suo nome, e altrettanti vi parleranno della sua “maledizione”. Perché? Semplice, perché quella di Carter e di Lord Carnarvon, suo mecenate, è stata una delle prime operazioni commerciali e di immagine legate all’egittologia, organizzata così bene da non aver mai più avuto rivali.

A sinistra, Alan Gardiner, a destra Percy Newberry, entrambi egittologi e amici di Howard Carter.

Attorno a questa scoperta sensazionale che portò alla luce più di 5mila oggetti del corredo funerario di una faraone – cosa mai più ripetutasi – si sono creati misteri, intrighi e scambi politici enormi. Quello sicuramente più curioso e meno conosciuto è relativo ai presunti furti nella tomba commessi dallo stesso Howard Carter. Riggs spiega che due stimatissimi egittologi amici dell’inglese, Alan Gardiner e Percy Newberry, accusarono con prove certe il loro collega di aver sottratto dalle stanze nella Valle dei Re alcuni oggetti che, non catalogati, finirono nella sua collezione personale a Castle Carter, dimora inglese che l’egittologo, ormai famoso e benestante, si era concesso in Inghilterra. Gardiner raccontò di aver ricevuto addirittura in regalo da Carter un amuleto proveniente dalla tomba di Tutankhamon: rimase “profondamente risentito dal gesto” restituendo subito il manufatto al Museo Egizio del Cairo.

Il saggio spiega anche molto bene quanto l’utilizzo delle foto e il colonialismo imperante nella prima metà del Novecento abbiano fatto diventare la scoperta egittologica più sensazionale di sempre una questione prettamente occidentale quando invece centinaia di operai egiziani lavorarono non solo agli scavi ma garantirono la sicurezza della tomba negli anni in cui si lavorò alla catalogazione e alla messa in sicurezza di tutti gli oggetti presenti. Riggs parla di “banalità coloniale”, quella convinzione secondo la quale qualsiasi potenza occidentale fosse in grado di occuparsi dei tesori del suolo egizio meglio degli egiziani stessi; un errore, questo, che verrà poi riparato con accordi politici e la nascita del museo del Cairo anni dopo.

A sinistra Howard Carter, a destra lo stesso Carter e altri studiosi portano alla luce i manufatti dalla tomba di Tutankhamon.

Infine l’autrice riflette su un tema non banale: quello del trattamento dei corpi dei defunti antichi a scopi scientifici e di ricerca. Secondo Riggs gli egittologi dei primi del Novecento, carichi del desiderio cieco di nuove scoperte e di nutrire il proprio ego occidentale, dimenticarono completamente l’attenzione alla quale quei corpi regali e non, nascosti proprio per non essere mai più disturbati, avevano diritto. Si tratta di una tematica che ora è valutata attentamente dai poli museali: il Museo Egizio di Torino – il secondo al mondo per importanza della sua collezione di manufatti dopo quello del Cairo – ospita un sondaggio permanente rivolto al pubblico sul tema dell’esposizione delle mummie. Inoltre, già dagli anni Trenta del Novecento, i corpi delle mummie non vennero più sbendati, grazie all’intuizione iniziale e alla sensibilità di studioso dell’egittologo italiano Ernesto Schiaparelli, bensì analizzati tramite tecniche non invasive come la TAC.

“Vedo cose meravigliose” è un saggio molto interessante anche se particolare nella scelta della narrazione che si intreccia in alcuni punti con quella della storia della Riggs. Perfetto se si vuole approfondire la storia della tomba di re Tut, è un libro che ci porta a riflettere anche sul ruolo della narrazione e delle immagini nel costruire la storia che conosciamo.