In un saggio del 2013, un professore di semiotica e un giornalista e scrittore raccontano visioni e prospettive su sei fra i più importanti autori di detection novel del mondo
Forse leggendo Sofocle e Shakespeare non ci avevate fatto caso, ma Edipo e Amleto sono stati dei detective. Se vi sentite spaesati è più che lecito, se non altro perché una gran parte della critica letteraria sui gialli detesta profondamente questa tesi e cerca appena possibile di smontarla, se possibile saltandoci sopra a piè pari.
Succede anche in questo saggio di Massimo Bonfantini (1942-2018), filosofo e professore di Semiotica, collaboratore di Umberto Eco e Carlo Oliva (1943-2012), scrittore, giornalista e conduttore radiofonico, Il maestri del giallo pubblicato in versione aggiornata nel 2013 e che raccoglie sei saggi brevi dedicati alle figure più importanti della detection nella storia della letteratura: Arthur Conan Doyle, Agatha Christie, Dashiel Hammett, Raymond Chandler, Georges Simenon e Giorgio Scerbanenco.
Se l’idea che Amleto fosse un cugino alla lontana di Holmes getta nel più totale sconforto ed imbarazzo entrambi gli autori, c’è un frugare fra il passato che invece per entrambi, ha più che senso al fine di ricercare le vestigia dei romanzi polizieschi: l’indiziato si chiama Omero, non so se ne avete sentito parlare.
La tesi di Oliva in particolare, è che ogni forma di letteratura abbia preso avvio da una sorta di creta primordiale che fu proprio il racconto epico, dall’Iliade in particolar modo. Questo poema conteneva tutto, dai racconti di avventura alla Jules Verne, passando per le storie d’amore alla Jane Austen, arrivando, chiaramente, alle storie di guerra; ogni forma di letteratura si è poi specializzata, andandosi a plasmare sulla cultura e la società entro le quali prendeva forma e otteneva più o meno successo.
Così fu per il giallo come lo conosciamo, quello classico, che nasce (e qui non ci sono dubbi) grazie alla penna a cavallo fra il romantico e l’illuminista di Edgar Allan Poe che non solo con I delitti della Rue Morgue ma anche con il racconto Lo scarabeo d’oro, accende la miccia di una bomba che esploderà con il Lecoq di Gaborieau e il mitologico Sherlock Holmes di Doyle. Carlo Oliva, che fra i due ha realizzato i saggi più scorrevoli e immediati del libro, da una definizione bellissima dell’origine sociologica della detection
Nella letteratura poliziesca l’innovazione di genere nasce dalla sintesi, dalla reazione chimica, fra l’attenzione alla cronaca criminale e l’attenzione alla procedura logica della scoperta.
Nel libro, che è di facile lettura ma è decisamente molto denso di informazioni (munitevi di matite, segna pagine e quaderno perché ci sono decine di citazioni e passaggi di cui tenere traccia se siete dei drogati di gialli), ecco che Agatha Christie compare con il suo Poirot che da l’avvio a quel tipo di detective che dialoga, ascolta, parla, e ancora domanda e ascolta, analizzando per filo e per segno la mente dei suoi sospettati, fino ad arrivare ad una conclusione esatta. Ancora eroe dandy ma lontano dalla prestanza fisica e dalla “complessità aperta” di Holmes, il portatore sano di “celluline grigie” è simbolo del nuovo giallo, quello meno scientifico e più narrativo; Oliva scrive della Christie, dicendo una enorme verità che “è stata una grande costruttrice di storie. In questo senso, finché ai lettori interesseranno le storie ben costruite, è improbabile che passi di moda”. Che dire, alcuni sostengono che la Queen abbia venduto circa 3 miliardi di copie (dato 2018) altri 2: non si può dire che i lettori la ritengano passata di moda.
E poi ecco spuntare i duri, quelli con la sigaretta a mezza bocca e per i quali analizzare la psicologia del loro “avversario” o il tipo di cenere lasciata dal loro sigaro interessa meno di niente. E’ Daschiell Hammett il demiurgo del detective dal cuore (forse) un po’ tenero ma dai pugni pronti, e da lì si scivola veloci fino ad un certo Marlow che fa la sua comparsa nel 1939 nel Grande Sonno; “sensibile al degrado del mondo”, il detective che andava ad incontrare i quattro milioni di dollari, determina la fortuna di Chandler, autore non proprio affabile ma che nel suo La semplice arte del delitto chiarì le sue linee guida sul giallo. Disprezzò amabilmente Agatha Christie, Dorothy L. Sayers ma soprattutto S.S Van Dine (e il suo Philo Vance) sostenendo che “le loro opere non sono narrativa, sono troppo ingenui e macchinosi, e troppo poco consapevoli di quel che va accadendo nel mondo”. La lezione di Raymond è quindi, realismo, verosimiglianza: poche chiacchiere, tazze di tè, pioggia sui vetri, e nemesi piene di cultura e lati interessanti ma via libera ai poliziotti corrotti, ai cuori infranti, alle sparatorie nei vicoli puzzolenti e storie dai veri bassifondi.
E in Italia? L’ultimo saggio raccolto nel libro dedicato a Scerbanenco è in verità un’occasione per parlare dello stato dell’arte della detection in Italia che non esiste fino al 1930 e anche dopo arranca fra voglia di atmosfere esotiche e lontane, censura fascista e puzza sotto il naso della critica che non ritiene il “giallo” vera letteratura, confinandolo in edicola. Eppure Bonfantini su questo, come lo era stato anche Del Monte nel suo Storia del romano poliziesco (ne parlo qui), è chiarissimo: non serve la critica pregiudiziale in base al genere, è la sostanza che fa la letteratura.
Quello pubblicato da Atì Editore, è un libro interessante, che costruisce un viaggio ricchissimo nella letteratura di genere appoggiandosi ai suoi grandi pilastri. Se cercate un saggio che racconti in modo didascalico e scolastico gli autori in copertina, non leggetelo, se invece volete guardare alla detection attraverso un occhio di vera critica letteraria, interessante e circostanziata, procuratevelo.
Consigliato: sì
Adatto agli sherlockiani: sì
Da leggere più volte: sì
M. Bonfantini, C. Oliva
I grandi maestri del giallo
Atì Editore– 2013
Euro 13,00
Fuori catalogo ma acquistabile online usato